Puglia: lu sule lu mare e i pasticciotti

Ci sono giorni, non “quei” giorni, ma giorni comuni per entrambi i sessi, in cui si avverte il bisogno di un colpo di scena, un brivido caldo che dia una svolta alla routine quotidiana.
Ecco perché ho deciso di raccontare la settimana che mi aspetta quasi in diretta. Lo capisco, sono emozioni forti, ma insieme supereremo anche questa.
L’occasione, stavolta, si presenta sotto forma di un evento organizzato in Puglia, con la partecipazione di ospiti nazionali e internazionali, allo scopo di promuovere il territorio attraverso gli occhi “estranei” di bloggers e Instagramers. 
Ora qui faremo tutti finta di capire cosa sto dicendo, ché poi un giorno lo spiego con parole che possa capire anche io. Nel frattempo facciamo un atto di fede e prendiamo per buona la presenza, a questo mondo, di esseri mitologici che vengono invitati per raccontare qualcosa, che sia territorio, paio di scarpe o esperienza mistica.

Il Salento Up ‘n’ Down è un viaggio su e giù per la Puglia, appunto, con l’obiettivo di far scoprire luoghi noti e meno noti.
Nel momento in cui scrivo, non ho ancora incontrato i miei compagni di avventura, ma conosco i loro nomi e già c’ho la sudarella da prestazione. Mi ricordo un episodio avvenuto qualche mese dopo aver iniziato l’università; io e i miei ex compagni di liceo decidiamo di andare a trovare i vecchi professori. Già qui potremmo apparecchiare tavole rotonde sul perché ci si presta a questa barbarie. Ma chi le vole vede’ ste quattro cariatidi, io fuoco al liceo volevo dare. 

Fatto sta che incontriamo, tra gli altri, la professoressa di latino e greco, che davanti alla sua classe, rivolgendosi a me, chiese:

– Iannone, e tu che fai? –

– Scienze della Comunicazione –

– Vedete? Se c’è arrivata Iannone all’università, ce la potete fare anche voi –

Sempre in gamba eh Professore’. Magari al Verano, ma sempre in gamba. (Il Verano è uno dei cimiteri di Roma. N.d.A. per chi chiama da fuori Raccordo).
Cosa mi è rimasto di quell’epoca: niente, ho studiato e poi dimenticato tutto, che poi io ‘sto greco non l’ho più usato, quindi fate fare un corso di unghie finte ai vostri figli, altro che classico. In più porto gli strascichi della sindrome di Cenerentola, cioè sentirmi una sguattera alla festa di corte.
Un attimo che riprendo il filo del discorso. Quando sono stata invitata per questo evento, la prima reazione è stata di stupore: mi merito di partire? Sono in grado di stare tra gente forte, stimolante, con lavori fighi? La seconda reazione uguale. Un generale senso di inadeguatezza, alimentato anche da voci maligne sul mio conto. Sì, parlo con voi, progenie crudele della professoressa di latino e greco, nipoti brutti un colpo della dinastia di Sofocle. Io parto perché io valgo. Ma soprattutto sono bionda e bevo come un fabbro, sono disponibile per matrimoni, comunioni, feste di laurea e circoncisioni.
PRE PARTENZA – Il giorno prima di partire, ho trovato il tempo di fare una toccata e fuga in quel di Milano con la scusa di un invito all’atelier Nespresso, uno spazio industriale recuperato e pensato come un luogo di dialogo e di confronto creativo sul tema del caffè.

Qui avremmo incontrato tre chef stellati, che ci avrebbero deliziati con un brunch a base dei loro pezzi cult, strizzando anche l’occhio al protagonista del luogo: il caffè.

Non sono se sono stata spiegata, chef stellati, atelier, spazio Marras. La Milano da bere nel suo pieno splendore.

Io e la mia amica arriviamo tipo sbarco in Normandia, sudate alla faccia del “c’avete solo la nebbia” e anche un po’ trafelate. Io sono un incrocio tra Gianfranco Funari e i Blues Brothers mentre stringo la mano all’amministratore delegato di Nespresso Italia. Sono in total black H&M e scarpe maculate fosforescenti Vans, l’atelier è gremito di donne bidimensionali e uomini in giacca e cravatta. Per un momento penso di afferrare un vassoio e mettermi a servire ai tavoli, invece veniamo fatte accomodare dalla Gestapo delle hostess al nostro posto.

Assistiamo a un workshop sulla lavorazione del caffè, assaggiamo due caffè diversi, veniamo accompagnati attraverso un’esperienza multi sensoriale alla scoperta delle rispettive differenze. Ci chiedono di guardare la schiuma, di scansarla con il cucchiaino, di riconoscere il profumo agrumato del bergamotto e quello intenso del cioccolato. Io sono sveglia dalle cinque di mattina e voglio solo iniettarmi quel caffè direttamente in vena.

Prima del brunch ci viene offerto un aperitivo nello spazio esterno a base di champagne Ruinart e cialde di mais con guacamole e parmigiano. O almeno credo, ho ficcato in bocca l’intera cialda.

Nel frattempo diamo un’occhiata all’atelier di Marras, dove l’eleganza è quasi sfacciata e io quasi spudorata a presentarmi vestita come l’assistente di Meryl Streep in Il Diavolo Veste Prada.

E fu il brunch. Credo si sia ormai capito che per me il cibo è amore. Io non mangio, io mi innamoro ogni volta. È un trasporto fisico per quello che ho davanti, sia cibo di strada o alta cucina.

Bisogna dire che un piatto stellato rappresenta un’esperienza extra corporea. Al primo assaggio non capisci niente, ti esplodono in bocca sapori che non riesci a collegare. Al secondo cominci a distinguere qualcosa di conosciuto, ma anche qualcosa di inusuale. Poi vuoi morire lì, se c’è un dio mi deve far schiattare ora, mentre il tartufo e la crema di caffè ancora sono sulle mie papille gustative e una tizia grossa come il mio indice mi versa da bere il nettare degli dei.

Tutto è talmente perfetto che rifiuto  il mio nome e rinnego mio padre.

Voto alla giornata: 110 e lode, bacio accademico e una calorosa pacca sulle spalle.

   
    
 
GIORNO UNO – In una settimana ho preso due aerei e un treno, cinque kg, i miei capelli sono un’installazione di lacca e il mio migliore amico è il correttore. Ma sono ufficialmente in Salento. Arrivo all’aeroporto e mi rendo immediatamente conto che sarà un’esperienza enorme: ci sono i cameraman.

Ora, io non mi ritengo una brutta ragazza, ho visto gente messa peggio e comunque nessun fidanzato si è mai lamentato. Il problema è che l’obiettivo non mi ama. Foto, video, diapositive, cartoline, qualsiasi superficie con impressa la mia immagine andrebbe bruciata. Come scoprirò di lì a poco, invece, le mie compagne di viaggio hanno la fotogenia di Nicole Kidman. Sarà una lunga settimana.
Arriviamo a Lecce, dove saremo ospiti dell’Hotel President. L’orario è quello del pranzo e ne approfittiamo per conoscere meglio le persone con cui condivideremo questa esperienza. Considerate che siamo una ventina di persone, metà italiani metà da altre parti del mondo (compreso il Giappone). L’atmosfera è da gita delle medie, la lingua più parlata, l’alcol.
Dopo pranzo abbiamo il tempo per una meritata siesta ed è già ora di uscire nuovamente, ma stavolta per un aperitivo sulla terrazza del Risorgimento Resort. Come posso spiegare cosa si prova a bere un bicchiere di vino mentre il tramonto infiamma i tetti di Lecce? Mi invidio da sola.
   
   
 

La prima volta fa sempre male, la terza volta ti fa pensare

Esiste una fase della conoscenza tra due persone, che fa presagire potrebbe trattarsi di una promettente e stabile relazione. È il momento che va dal primo appuntamento ai successivi due o tre. Sono gli incontri dopo a determinare se il primo è andato davvero bene o se quel “sentiamoci” a fine serata era la scorciatoia verso un futuro da single.
Se voi prendete questa regolona generale e l’applicate un po’ a tutto ciò che riguarda la sfera emotiva, otterrete il mio ritorno a Palermo. 
La prima volta ero rimasta affascinata dal suo aspetto complesso: umile, cafona, opulenta, misera, elegante, decadente.

La seconda volta ci sono tornata per verificare le emozioni provate durante la visita precedente. Se era amore oppure un calesse. O un “lapino”, come dicono lì.
Stavolta l’occasione si è presentata sotto forma di compleanno del mio ragazzo, che avendo compiuto quarant’anni, da oggi chiameremo il mio signore.

La naturalezza, con cui abbiamo deciso di festeggiarlo in questa città che ormai sentiamo un po’ nostra, con delle persone diventate amiche, mi convince sempre di più che Palermo sia la città giusta per me.

GIORNO UNO – Per non perdere neanche un minuto del weekend, la partenza è con comodo alle otto del mattino. Arriviamo a Palermo con un tempo che minaccia pioggia e in orario da colazione.

Un po’ perché la città è gastronomicamente generosa, un po’ perché quello che succede in vacanza rimane in vacanza, decidiamo che le dieci e mezza sono un buon orario per birra e sfincione al Mercato San Lorenzo. Il mercato, come suggerisce il nome, è un’esposizione di cibo all’interno di uno spazio riqualificato,  dove design e materiali di recupero hanno contribuito a creare uno di quei posti radical chic che vanno di moda ultimamente. 

Qui non solo si possono comprare prodotti locali, ma anche assaggiarli sul momento. E siccome tutto mi si può dire, tranne che non ho rispetto per le culture locali, mi sento in dovere di mangiare questo lenzuolo di pizza con ricotta, cipolla e acciughe.
Apro una parentesi: se andate a Palermo, o in generale in Sicilia, sappiate che sono un popolo generoso anche nelle porzioni. Tu chiedi un’arancina e ti arriva un Supertele che da un momento all’altro esploderà ragù. Ordini un piatto di pasta e arriva la cofana di spaghetti di Bruno Sacchi (per chi non era giovane in quegli anni o non romano, cercatelo ché io non lo trovo).

Di conseguenza, non dimenticate le gomme da masticare, di quelle potenti, alla candeggina possibilmente. 
Dopo un primo corroborante contatto con la città, andiamo nel B&B che ci avrebbe ospitato per il fine settimana, Stanze al Genio. L’aspetto più curioso è che la struttura si trova nell’appartamento sopra al museo delle maioliche, che raccoglie 2300 mattonelle napoletane e siciliane. Anche il B&B, quindi, è stato arredato nello stesso modo, conservando i pavimenti originali e i soffitti affrescati. Vi assicuro che fare la doccia sotto un soffitto dipinto è davvero suggestivo.
Tempo di lasciare le valigie in camera e siamo pronti per il pranzo. Come ho già detto, a Palermo si mangia costantemente e la selezione naturale vuole che le signorine mangiainsalata vengano trovate in overdose da Imodium. Qui ci sono tra le donne più belle che abbia mai visto, con il fegato di un muratore e la capacità alcolica di un marinaio. Astenersi perditempo.
Ci fermiamo a mangiare in una delle trattorie del centro, la Trattoria Basile, dove ordiniamo il panino con la milza, uno spugnoso e sugoso panino che sa di eternità. 
Tappa successiva, Terrasini, una località balneare con i negozietti di materiale per la pesca e poi, ancora, Cala Rossa. So che si può dire di molte città, ma nella mia ingenuità, quando penso a una provincia del Sud, penso al mare, alla sabbia, al porto. Poi vieni a Palermo e se ti sposti appena dal centro, trovi posti dove la natura ricorda quella imponente della Norvegia dei fiordi. È così Cala Rossa, dove rocce a strapiombo si tuffano nelle onde e se ti siedi su uno sperone, con i piedi penzoloni e il vento che soffia, vedi il mare ribollire sotto di te.
Torniamo di nuovo in centro, poi a cena in un locale dove eravamo stati la volta precedente e ancora in giro a bere qualche altra birra. Ricordate, qui la birra costa meno dell’acqua, praticamente Praga, con lo stesso dialetto incomprensibile.

Consiglio: se nella vostra adolescenza avete sognato di dare fuoco a una chiesa e il 1977 è un anno per voi caro, due sono i locali da non perdere. Il Krust e il Rocket Bar.

Cocktail dell’estate: il fresconegro, a base di amaro e Schweppes. Sembra chinotto ma non è, serve a darti l’allegria.

    

    
   

GIORNO DUE – La sapete quella di notte beoni di giorno… Vabbè la sapete, eppure coraggiosamente mi sveglio per fare colazione e trovarmi, vicino ai cornetti, le arancine. Che grande popolo è questo.
Un popolo che ha un menù di pesce a prezzo fisso e tra gli antipasti offre i ricci di mare, appena aperti, da far scivolare sul pane col sesamo. 
Mangiare pesce è l’obiettivo del giorno, anche se con la scusa visitiamo Sferracavallo e Barcarello. Poi all’improvviso siamo seduti al Sea Fruits e da lì non ci muoviamo per le due ore successive.
Finiamo la serata in un locale dove ormai siamo di casa, arrivano gli amici, due tra i più cari ( Your Noisy Neighbors) suonano anche per noi, alziamo i calici ripetutamente. In questa notte di baci e abbracci sinceri, salutiamo la città ancora una volta.

Palermo, se tu me lo chiedessi, io ti sposerei.
  
   
    
 

When il figliol prodigo meets il vitello grasso

Dal Vangelo secondo Luca, il ritorno del figliol prodigo viene accolto con l’uccisione del vitello grasso.
Quando vado a Cetona, nella casa che i miei genitori comprarono anni fa, sono il figliol prodigo e il vitello grasso insieme.
Una cosa che ho imparato con il tempo, è che un figlio non smette di essere figlio solo perché ha una casa propria, un frigo con delle Sottilette al suo interno e un commercialista tutto suo. 
Un figlio rimane piezz ‘e core e pure un po’ piezz ‘e merd per le preoccupazioni, reali o inventate, che continuerà a dare ai suoi genitori. 
Una di queste è il cibo. Per un genitore, il figlio non avrà mai mangiato a sufficienza, anche se si è appena alzato da tavola. Per un genitore, il figlio avrà sempre l’aspetto di Chuck Noland di ritorno dall’isola in Cast Away. Magari sotto la corazza di panna cotta di Adinolfi, ma in fondo deperito.
GIORNO UNO – Arriviamo a Cetona in tarda mattinata e – ça va sans dire – le patate già sfrigolano nel forno con quel profumo rassicurante di olio e famiglia. Mia madre ci accoglie con il suo sorriso da lady della Val D’Orcia e le seguenti parole d’amore: “papà chiede se lo raggiungiamo per un aperitivo”.
Per chi avesse perso le puntate precedenti, in cui introducevo questo borgo, Cetona è un comune di neanche tremila anime, dove la vita sociale si svolge principalmente nella piazza del paese. Qui ci si dà appuntamento per raccontarsi gli ultimi pettegolezzi, decidere le sorti della contea, bere. 
Prendiamo un calice di vino bianco ghiacciato al Caffè Sport, giusto per preparare lo stomaco al pranzo. Lo stomaco, infatti, va educato ad affrontare qualsiasi situazione; potrebbe essere un panino con il lampredotto alle nove di mattina o un’impepata di cozze alle undici di sera. Se il vostro corpo è il vostro tempio, lo stomaco sono le mura. È inutile che lo alimentiate a fiori di Bach e petali di riso, ché al primo bacillo nell’aere prendete la gonorrea. Fate come me, una botta al cerchio e una alla botte, petto di pollo un giorno, peperonata un altro. Forse avvertirete un lieve bruciore e vomiterete sangue, ma un tempio va difeso anche a costo di qualche sacrificio.
Con questa supercazzola, ci apprestiamo a onorare la cucina materna. Una madre che si possa definire tale, anche quando è evidente che sta aspettando gli Achei tutti, dirà sempre: “Ragazzi, una cosa al volo eh”.
Mangiamo la lasagna ( “un pezzetto per uno eh”), le scaloppine ( “un assaggio eh”), le patate croccanti ( “è difficile trovarle buone, sono sempre troppo dolci”), la verdura ripassata ( “un po’ di verdura, poi ho pensato basta così”). E beviamo, beviamo, più che un pranzo in famiglia sembra la reunion degli Oasis.
Dopo una breve siesta post prandiale, che non ci dà neanche il tempo di digerire, veniamo portati a una cantina per assaggiare i loro vini. Le mura del mio tempio cominciano a vacillare, ma io resisto. Solo i duri, solo i forti. Continuiamo per Camporsevoli, un borgo medioevale dove le uniche forme di vita siamo noi e gli alberi che circondano questa Silent Hill toscana. Facciamo un giro in macchina per i tornanti che portano alla montagna, il verde brillante dei campi, più scuro nelle zone d’ombra, si sussegue ai colori dell’estate ormai imminente. 
Un’ultima occhiata tra i cespugli per stanare i caprioli (l’ho già detto che mio padre contiene Piero e Alberto Angela in un unico uomo?) e a malincuore ci accingiamo a concludere la giornata.
Non prima di aver fatto un aperitivo preparatorio a una cena a base di hamburger di chianina.

   
    
   
GIORNO DUE – Mi sveglio e questo già mi sembra sufficiente. Andiamo a fare colazione in un bizzarro locale chiamato Michele & Co., sogno proibito di ogni utilizzatore compulsivo di Instagram. Servono dalla colazione alla cena, dai macarons al filetto, in un ambiente volutamente disordinato. Ci sono tavoli di legno, tavoli di marmo, sedie impagliate, poltrone vecchio stile, lampadari, alberi che crescono dentro la sala.
Proseguiamo per Panicale, un altro borgo ma stavolta in Umbria, dove un panorama mozzafiato sul lago Trasimeno introduce a questo Comune fatto di vicoli e piccoli giardini nascosti.
Prima di tornare a casa, passiamo al casale di alcuni amici dei miei genitori. La vista del parco che circonda l’edificio, la casetta degli attrezzi, questa atmosfera un po’ decadente di fasti passati, mi convince sempre di più che io sono nata per essere pazza e ricca, non solo pazza.
Io sono destinata a uscire in giardino indossando una camicia da notte in lino egiziano 40 carati, per giocare a golf nella maniera sfacciata dei bohémienne viziati. Cioè tirando le palline contro i vetri delle stamberghe della plebe.
Pare che ci sia in vendita, a 23 milioni di euro, un’intera contea con un’abbazia privata. Mi mancano 23 milioni meno un centinaio di euro e potrò portare a compimento il mio destino.
Non muovetevi eh.