Ci siamo trasferiti!!

Dove il noi è il plurale maiestatis per dire che ho cambiato blog e se volete potete trovarmi su www.killbilla.it per altre frizzantissime avventure.

Se non volete, ce ne faremo una ragione. Dove “faremo” è plurale maiestatis per dire che se non mi seguirete “on the other side”, io imparerò il voodoo solo per trovarvi ovunque voi siate.

La biondina in gondoleta 

Dall’ultima volta che ho scritto un articolo sono successi: calamità naturali, Donald Trump presidente degli Stati Uniti, il divorzio dei Brangelina, io che mi sono messa a dieta. Se aspetto ancora un po’ arrivano le locuste, la moria delle vacche e i primogeniti non se la passeranno benissimo.
Cosa era successo nelle puntate precedenti: la mia vacanza enogastronomica, cominciata in Toscana, prosegue a Venezia.

GIORNO UNO – Mi sveglio la mattina della partenza convinta di aver perforato l’ulcera. Mentre dentro di me l’Inferno dantesco e il Mordor di Tolkien si stringono la mano, io comincio a implorare i miei avi di liberarmi dal male, giuro di devolvere l’otto per mille alla chiesa cattolica e di smettere di bestemmiare in rima. Prometto di riportare a mia sorella le scarpe che ho fatto finta di non sapere dove fossero e di nutrirmi solo con muschi e licheni. Ma soprattutto pronuncio la madre delle frasi: “oggi non bevo”.
Arriviamo a Mestre verso l’ora di pranzo, carichi di promesse e belle speranze. La prima tappa obbligatoria è l’albergo. L’Hotel Bologna è una di quelle strutture in cui entri e ti chiedi perché dovresti uscire a visitare la città. Personale attento, parquet in camera ma soprattutto un calice di prosecco allo stesso costo di un cappuccino vista Colosseo.
Una doccia e un riposino dopo, prendiamo coraggio e raggiungiamo alcuni amici a Venezia. La città è come la ricordavo, piena di gente ma allo stesso tempo misteriosa, affollata nelle zone più famose e silenziosa nelle calli meno conosciute. Una città avvolta su se stessa nonostante i turisti, una dama riservata nel bel mezzo di una festa. Mi stupisco ancora di fronte ai panni stesi che si riflettono sull’acqua, al traffico di barche, al tramonto che infiamma il Canal Grande. Noto che i gabbiani sono sempre grossi come tacchini, ma non invadono più Piazza San Marco come un tempo. Invadono tutto. E mentre mi guardo intorno con occhi che non ne hanno mai abbastanza di tutta quella bellezza, viene pronunciata la parola magica “aperitivo”.
Tutte le promesse, fatte nel tragitto tra la Toscana e il Veneto, hanno avuto la solidità dei titoli bancari dopo che l’Inghilterra è uscita dall’Europa. A quel punto attacco una cantilena costante e continua per costringere i miei amici a trovare una farmacia che mi dia eroina, assenzio, oppio o semplicemente un fegato nuovo per affrontare l’happy hour. Una volta individuata, chiedo alla farmacista qualsiasi cosa mi permetta di continuare la vacanza senza essere ricoverata prima. Lei mi risponde con una delle battute più divertenti da quando Robin Williams è morto, cioè che non dovrei bere, mentre io mando giù pasticche di Gaviscon come se fossero arachidi e annuisco rassicurante. Appena uscita dal negozio, andiamo a bere.
Quando hai la fortuna di essere accompagnata da abitanti del luogo goderecci e appassionati di cibo, scopri dei posti che altrimenti non avresti conosciuto. La Vineria all’Amarone è un locale gestito da un caloroso quanto competente veneziano, che ci introduce al tradizionale cicchetto. Dicesi cicchetto, uno stuzzichino che si presenta, solitamente, sotto forma di pane con sopra un affettato o del pesce. Uno su tutti, il cicchetto con baccalà mantecato. Due o tre bottiglie di prosecco dopo, torniamo al nostro confortevole hotel, con la pancia piena e la borsa pure. Di Gaviscon.




GIORNO DUE – Il risveglio, se possibile, è ancora più dolce. Scopro che la sala per la colazione ha la macchina per i pancake. Incurante dei segnali disperati che il mio corpo manda, mangio non come se non ci fosse un domani, ma come se non ci fosse stato uno ieri in cui mi sono ingozzata di cicchetti. Tempo di entrare faticosamente nei pantaloni e usciamo di nuovo, diretti a un classico e romanticissimo giro in gondola.

Mi scuso con gli amici gondolieri, ma questo momento tipicamente veneziano tutto fa tranne venire voglia di accoccolarsi ad ascoltare il mare. La gondola è pacchiana e mentre passiamo sotto i ponti, tutti ci guardano come se fossimo Don Antonio abbracciato al “pono pomellato“. In più i gondolieri hanno lo sguardo cattivo e cospiratore dei gabbiani, il che non rende il giro rassicurante come nei film di Woody Allen. Però è un’esperienza da fare, anche solo per salutarsi da gondola a gondola con i turisti stranieri.
Superata la prova gondola e avendo perso una caloria nel frattempo, corriamo ai ripari fermandoci a mangiare a La Bottiglia, un piccolo locale senza pretese dove bere un calice di vino accompagnato da un tagliere di salumi e formaggi.
La serata si conclude nel ristorante dell’hotel, dove non ho alcun ricordo dei piatti mangiati, ma sono certa di aver mangiato bene. E soprattutto bevuto meglio.
Finisce, così, la seconda tappa di quello che non era nostra intenzione far diventare un tour enogastronomico, ma si sa, a noi ce piace da magna’ e beve e nun ce piace da lavora’. Prossima fermata: Tarvisio.


 

Home is where your stomach is

Il buon Edmond Haraucourt diceva che “partire è un po’ morire”, perché in ogni luogo visitato, noi lasciamo un pezzetto di anima. Quello che nessuno vi dirà, ma che imparerete a vostre spese, sarà che lascerete un po’ di cuore, ma riporterete tanti di quei kg in più, che il vuoto lasciato dall’organo verrà sepolto sotto strati di confortante adipe.

Se non fate parte di quella categoria di persone che in vacanza “mica ingrasso, anzi, sto sempre in acqua e faccio tante di quelle passeggiate che non ho tempo di mettere su peso”, il mio consiglio è di scegliere una destinazione dove poter soffrire la fame. Altrimenti potrebbe succedere di incontrare una persona negli spogliatoi della palestra, che con la diplomazia di Kim Jong-un vi chiederà se siete incinta, ma voi prendete la pillola anticoncezionale.

TOSCANA. Le vacanze intelligenti vengono pianificate secondo il principio Lorenzin. Il principio Lorenzin afferma che, se con una foto, puoi offendere migliaia di persone in una botta sola, figurati quando posti un album intero su Facebook a settembre, mentre tutti sono a lavoro e magari piove.

La prima tappa di quello che si rivelerà essere un fight club i cui membri siete tu e il tuo fegato, è casa dei miei genitori in Toscana. Già qui le prime congratulazioni a noi stessi per aver deciso di spezzare le molte ore di viaggio sulla strada per Venezia. In realtà stavamo cominciando a versare benzina sul fuoco.

Approfittiamo per andare a trovare un’amica che lavora al Castello Banfi, la Mecca per quanti hanno in Bacco il loro spirito guida. Trovarsi scortati nelle cantine di una delle aziende vinicole più importanti del mondo, è come conoscere un elfo che ti invita a fare un giro nella fabbrica di giocattoli di Babbo Natale. Non che la mia amica assomigli a un elfo, anzi è veramente molto carina e ne approfitto per salutarla. Ciao Elisa, ti manda un bacio il mio epatologo.

Attraversiamo file di botti e ci inebriamo dell’odore di rovere e mosto, ci viene spiegato il sistema di produzione e i passaggi fino alla distribuzione. Io annuisco interessata, ma la parte bionda del mio cervello sta pensando “ma se beve?”. Ammettiamolo, quando sei in un posto del genere, dove tutto grida lusso, non vedi l’ora di assaggiare vini che forse mai ti potrai permettere. Tu, stirpe indegna del Tavernello. Assaggiamo uno spumante dal perlage deciso. Chissà se si può dire deciso di un perlage, chissà se si può mettere un aggettivo vicino al termine perlage, chissà poi cosa vorrà dire ‘sto perlage, io volevo solo darmi un tono invece di gridare “bollicine” come una Carla Gozzi un po’ alticcia.

Continuiamo con dei vini rossi dai nomi altisonanti, che purtroppo non ricordo per via di quel piccolissimo problema con l’alcol che ho. Sono certa che uno fosse una riserva del ’95, ma forse parlavano della formazione della Roma. Quello che non potrò dimenticare è la possibilità che ho avuto di visitare uno dei posti più incantevoli della Toscana.



SECONDO GIORNO – Decidiamo di tornare a San Quirico d’Orcia per pranzare in un locale che ci aveva colpito la volta precedente. La Bottega di Ines è un piccolo ristorante zeppo di cianfrusaglie che serve una cucina tipica. Ordiniamo un panino con la finocchiona e dei crostini caldi in cui l’ingrediente principale è il pecorino. Il momento in cui addento un pezzo di pane con il lardo di Colonnata, sento le arterie ostruirsi di felicità. Anche di grassi, ma soprattutto di felicità. Concludiamo la serata nel solito bar di Cetona, dove abbiamo assicurato l’università ad almeno tre o quattro nipoti del proprietario per tutti gli aperitivi fatti. Ma si sa, lo stomaco conosce ragioni che la ragione non conosce.


Siamo tutti in questa situazione insieme

Dicesi “blocco dello scrittore” quella forma di ansia che ti fa cancellare tre volte l’incipit perché appare banale, forzatamente ironico, ora tiro contro il muro il portatile, appicco fuoco a casa e inizio una nuova vita lontana da tutti, nutrendomi di licheni e parlando con gli uccelli. Quelli che cinguettano, non quegli altri, ché se parlavo con questi ultimi, forse ero fidanzata con qualche ex presidente del consiglio e altro che ansia da prestazione, mi compravo un ghost writer e lo obbligavo a scrivere mentre io davo mille baci a Fuffi, il mio spumoso Bichon Frisè.

Stavamo dicendo? Ah sì, che se mio nonno aveva tre palle era un flipper e io non starei fissando da mezz’ora il muro, pensando a come parlare del concerto dei Massive Attack.
Proverò così: sono andata a vedere i Massive Attack.

Partiamo subito dal presupposto che qualsiasi cosa una qualsiasi persona decide di fare, é sempre soggetta a critiche, amplificate da quella cassa di risonanza che è il web. Italiani, popolo di poeti santi e opinionisti.

Togliamoci il dente, in quest’ultimo tour sono state mosse al gruppo le seguenti critiche:
1) Il prezzo del biglietto non era adeguato alla durata del concerto. Troppo alto il primo, troppo breve il secondo.
2) A Firenze, Robert Del Naja, uno dei fondatori del gruppo di Bristol, ha avuto un calo di voce e alcune canzoni hanno fatto cagare.
3) Sono risultati freddi.

Tutto vero o quantomeno plausibile. Ma quando si tratta di situazioni in cui la parte emotiva gioca un ruolo importante, non ci sono verità assolute. Per uno che si lamenta, ce ne sarà un altro con emozioni diverse e altrettanto rispettabili.

Io arrivo all’Auditorium Parco della Musica già maldisposta, dalle cose lette in precedenza, dal “non è tanto il caldo quanto l’umidità” (fatto sta che io sono già unticcia e i capelli si stanno arricciando sulla fronte e va bene l’estate addosso, ma c’ho pure l’ascella commossa), dall’aver attraversato tutta Roma e anche dal problema delle doppie punte, non si sa mai.
Poi però incontro una coppia di amici che non vedo da tempo, la Cavea è piena di un pubblico eterogeneo e di lì a poco rivedrò un gruppo dopo otto anni dall’ultimo live a cui avevo assistito.

Alle dieci meno un quarto (minuto in più minuto in meno), i Massive Attack salgono sul palco. Per chi non li conoscesse, direi che è ora di recuperare questa terribile lacuna e nessuno si farà male. Vederli dal vivo è un’esperienza che va provata almeno una volta, perché di vera e propria esperienza mi sento di parlare. La loro forza, è riuscire ad accompagnare lo spettatore attraverso un percorso a metà tra sonno e sogno, una sorta di dormiveglia attivo.

La scaletta, se pur priva di pezzi storici come Karmacoma, attinge da album vecchi (Hymn Of The Big Wheels da Blue Lines) al più recente Ep Ritual Spirits. Due batterie, sei componenti fissi più vari ospiti alla voce, i Massive Attack regalano un’esibizione serrata e precisa, in cui la parte visuale predomina.

Qualcuno ha parlato di una band fredda. Dal mio punto di vista il gruppo di Bristol, invece, è volutamente rimasto nell’ombra, come mero accompagnatore del pubblico all’interno di un’esibizione. A farla da padrone sono gli schermi alle spalle dei Massive Attack, dove vengono proiettate frasi (in italiano e non), immagini, nomi e codici, in un rimando continuo tra passato e attualità e in cui lo spettatore è chiamato a partecipare attivamente a quello che gli viene mostrato. C’è spazio per l’argomento Brexit, il terrorismo, personaggi storici, dichiarazioni di solidarietà e messaggi di speranza. I suoni si susseguono veloci, coinvolgenti e alienanti allo stesso tempo. Il pubblico è sospeso tra il lasciarsi andare e la necessità di mantenersi vigile, la Cavea rimbomba sul basso di Angel e il cuore spinge contro la cassa toracica.

Il tempo insieme è quasi finito, c’è tempo per Unfinished Sympathy cantata magistralmente da Deborah Miller, sullo schermo appare la scritta “Siamo tutti in questa situazione insieme”, il pubblico si alza in piedi, è quasi una liberazione. Mi guardo intorno, vedo i sorrisi e le mani rivolte al cielo, penso a tutti quelli morti in una situazione come la nostra. Penso a chi è morto cantando, chi amando, chi combattendo, penso alla potenza che può avere l’amore quando non è banalizzato.

I Massive Attack vanno via e noi veniamo sorpresi da un’esplosione di fuochi di artificio. Una pacchianata? Un’azione voluta per richiamare altro?
Io so solo che questa serata mi ha coinvolta esteticamente ed emotivamente, ci ha ricordato cose che continuiamo a dimenticare, forse l’hanno fatto in maniera un po’ sorniona, ma mentre lascio l’Auditorium più povera di qualche euro e più sudata di quando sono entrata, mi sento tutto sommato felice.

  


 

Puglia: lu sule lu mare e i pasticciotti. La conclusione 

Sapete quando si dice “se potessi tornare indietro con la testa di adesso”? Ecco. Se potessi tornare indietro, costringerei mia madre a tenermi a stecchetto, per poi portarmi a Trigoria tutti i giorni, altro che le vacanze in Austria a raccogliere pigne per l’albero di Natale. A quest’ora sarei la ricca moglie di un calciatore, con tanto tempo a disposizione e il bisogno di dimostrare che so anche coniugare i verbi. Le pigne le avrei comprate da Cartier e avrei avuto modo di scrivere le mie memorie, un po’ Silvio Pellico, un po’ Yourcenar.

Invece a un mese dal rientro in terra romana, mi trovo ancora a dover concludere il mio racconto sull’esperienza nel Salento. Se riesco entro dicembre, magari avrete un’idea di dove andare in vacanza.

GIORNO QUATTRO – Il risveglio è dei più dolci. Ad attenderci una colazione che ha del mitologico, a raccontarla non ci crederebbe nessuno. Purtroppo il mio girovita ha una fede incrollabile e, quando si tratta di infilare i jeans, mi ricorda che lui, la colazione, non l’ha dimenticata. Il programma della mattinata, infatti, prevede uno shooting fotografico con i vestiti gentilmente offerti da Meltin’ Pot, il famoso brand salentino di abbigliamento. Il problema è che i modelli siamo noi, ma che dico, il problema è che uno dei modelli sono io. Mi sdraio sul letto cercando di far entrare le mie gambe nei pantaloni, con la stessa facilità con cui Rocco Siffredi indossa un preservativo taglia XS. Chiudo la zip e prego che regga fino al prossimo albergo, stoica come un monaco con il cilicio.

Visitiamo il borgo di Specchia, un borgo medioevale in cui perdersi tra i vicoli bianchi e le persiane socchiuse. Il paese prende il nome dalle specchie, cumuli di pietra a forma conica che venivano utilizzate come punti di avvistamento o di difesa.

Dopo pranzo, ci dirigiamo alla volta di Castro Marina, una frazione dell’omonimo paese, affacciata sul mare. L’idea è quella di fare un giro, ma la pioggia ci coglie all’improvviso e ci costringe a rifugiarci a La Roccia, l’hotel che più tardi ci avrebbe ospitato per l’aperitivo. Dove per costringe intendo che abbiamo tirato un sospiro di sollievo quando le prime gocce hanno cominciato a scendere. Camminare per ore, conoscere posti nuovi e le tradizioni locali ha il suo fascino, ma anche potersi fermare su comodi divani mentre davanti a te si stende il mare a perdita d’occhio lo ha. Beviamo e mangiamo ancora, ormai contro qualsiasi legge fisica che ci vorrebbe morti due giorni fa.

Nel frattempo il buio sta sostituendo il giorno ed è ora di prendere possesso di quello che sarà il nostro albergo per la restante vacanza.

Come fare a descrivere l’Iberotel, usando meno parole possibili? È un resort anti stress, un villaggio a sedici stelle e un pianeta dove abbiamo passato giornate perfette, rese ancora più belle dalla formula all-inclusive. Il fegato ringrazia.




GIORNO CINQUE – È la volta di Gallipoli, conosciuta anche come Perla dello Ionio. Chissà poi perché: saranno i vicoli in cui perdersi, l’acqua cristallina su cui si riflette il sole, le barche colorate ormeggiate al porto, i locali affacciati sul mare, il mercato del pesce dove è possibile mangiare i prodotti appena pescati? Gallipoli è “tanta”, così varie le cose da vedere, che all’ora di pranzo siamo già sfiancati e approfittiamo dell’ospitalità dell’Ecoresort Le Sirene’ per il primo bagno di stagione.

La serata si conclude al Lido Marinelli, dove assistiamo al tramonto più spettacolare da quando siamo arrivati e che diventerà simbolo del forte affetto che ci ha unito durante questa vacanza.

  
  GIORNO SEI – Che ci crediate o no, anche un tour ha bisogno di un giorno off in cui girare con le infradito dalla colazione alla cena. Spendiamo il venerdì sfruttando tutto ciò che l’Iberotel offre. C’è chi prova il kitesurf, chi non rinuncia alla linea facendo spinning, poi ci sono io che cerco di tenere insieme le calorie accumulate, ché sarebbe un peccato perderle per strada. La giornata passa tra uno spritz e un bagno turco per eliminarlo. Ci sono stati già i primi arrivederci e qualche occhio lucido, man mano che va avanti la serata si fa più evidente la consapevolezza che ci stiamo per lasciare. Ci godiamo la notte come se dovessimo restare per sempre qui, come se nessuno ci aspettasse a casa, non il commercialista, non l’amministratore né la revisione alla macchina.


 GIORNO SETTE – È il giorno in cui finisce tutto e si torna a casa. Ognuno di noi ha l’aereo o il treno in orari diversi, così l’addio diventa uno stillicidio. Sai che alcuni di loro li rivedrai, alcuni probabilmente no, con tutti hai condiviso giorni e notti e questo è il regalo più prezioso che mi porto dietro. Piango mentre abbraccio i miei compagni, piango mentre sono all’aeroporto, piango ancora i giorni successivi. Poi la vita quotidiana torna a scorrere placidamente e mentre scrivo il timer della lavatrice mi avverte che è ora di normalità.

CONCLUSIONI – Un viaggio del genere porta con sé un grande potenziale. Intanto nella capacità di sfruttare un nuovo canale digitale per far conoscere la propria terra in tutto il mondo. Ho conosciuto persone splendide, che credono nel loro territorio e lo vogliono raccontare a livello emotivo. Attraverso un hashtag (#salentoupndown) abbiamo mostrato la Puglia così come lei si svelava a noi: alcuni da profani, altri da indigeni, altri ancora guardandola con gli occhi di una cultura diversa. Abbiamo provato a far vivere le emozioni del momento, così come noi le stavamo sperimentando.

Scopri che a 35 anni ti puoi ancora mettere in gioco, mostrarti senza paura davanti a chi reputi sconosciuto. Scopri che il “diverso” non è poi così diverso, semmai ti arricchisce con il suo bagaglio di esperienze e ha il tuo stesso sorriso di fronte a un piatto di pasta. Scopri che si può ancora fare amicizia con la stessa disinvoltura di quando eravamo piccoli, basta una canzone, una sigaretta offerta, una battuta involontaria.

Per tutto questo e per molto altro che voglio che sia solo mio, grazie Salento.

 

 

Puglia: lu sule lu mare e i pasticciotti 2

Quello che ancora non sapevo mentre scrivevo la prima parte di questo tour, è che la parte naïf in cui mi immaginavo scrivere a bordo piscina, sorseggiando un Cosmopolitan, sarebbe del tutto stata assente. In questo tipo di viaggi non hai il tempo di sederti e se ce l’hai sei troppo ubriaco, o stanco, o ubriaco e stanco perché i neuroni facciano contatto.Quello che viene richiesto, di solito, sono scatti dei posti che andrai a visitare e in cambio riceverai cibo, tanto cibo. E alcol. Tanto tanto alcol. E allora tu penserai che se c’è riuscito Bukowski, perché io no, sarò bella ubriaca e pericolosa. E invece ti svegli gonfia come un canotto, con il doppio mento di Renato Pozzetto e altro che scrivere Guerra e Pace, al massimo segnerai il numero della camera su cui addebitare i cocktail consumati.

GIORNO DUE – Il problema, quando cambi albergo e ti trovi a fare di nuovo la valigia, è che i vestiti si sono moltiplicati durante la notte. Quella borsa che avevi organizzato con la precisione di uno stratega, una volta aperta non sarà più la stessa. Al che, con la forza delle bestemmie, appollottoli tutto quello che trovi e speri non esploda lanciando mutande sui presenti.

La prima tappa della mattina è il Monastero degli Olivetani, un complesso inizialmente affidato ai monaci benedettini di Monte Oliveto, che oggi ospita il Dipartimento degli Studi Storici dell’Università del Salento. La bellezza del luogo è difficile da spiegare, tornerei a studiare solo per camminare sotto i portici. 

Da lì ci spostiamo al MUST, il museo di Lecce che non solo racconta la storia della città, ma contiene una raccolta di pezzi moderni e contemporanei. Da fare: salire sul tetto e godere del panorama. Da non fare: salirci con degli Instagramers che vi faranno stare sotto il sole cocente in nome dell’arte. Nel caso, protezione solare 50+ e portate a casa arte e pelle.

Nel frattempo si fa l’ora di pranzo e al Sud si mangia e si beve, costantemente. Sono quasi certa di non essermi fermata per più di un quarto d’ora senza un bicchiere in mano o un fritto. Ci intratteniamo a lungo alla Cantina delle Streghe, dove abbiamo modo di conoscerci meglio. Quando hai a che fare con 24 persone, da paesi diversi, non c’è altra lingua che ti unisca come l’alcol. Anche parlare a gesti diventa accettabile.

Dopo pranzo, abbiamo giusto il tempo di lasciare i bagagli all’Eos Hotel, per poi dirigerci all’instameet organizzato nel centro storico di Lecce. Dicesi instameet un incontro tra Instagramers, in cui si fanno foto tutte uguali perché il percorso è quello e quando torni in albergo bestemmi tutti i santi nell’accorgerti che c’era sempre qualcuno in mezzo alle balle nei tuoi scatti. Va detto che Lecce è bellissima, ricca di storia e vicoli pittoreschi, quindi vada per gli estranei presenti. 
La cosa buffa di essere un’ospite, è che ti accolgono personalità pubbliche come il sindaco. Tu sei la star in quel momento, magari mal vestita, con i ricci per l’umidità, piena di pizzichi di zanzara tedescotta style, ma la gente vuole farsi le foto con te. A saperlo mi mettevo in lungo, come l’artista russa che faceva parte del mio gruppo. Una donna che non sudava, non si spettinava, portava vestiti importabili dalla maggior parte degli esseri umani e l’incedere di una regina della steppa. Dietro io, l’amica cicciona che le ragazze si portano dietro a fare shopping per sembrare ancora più fighe quando escono dal camerino. 

Finiamo la serata alla Torre del Parco, una dimora storica del 1400, dove veniamo serviti come principi. Povertà in questo tour non pervenuta.

   

  

  

  
 
GIORNO TRE – Quando pensavo di aver già riempito occhi, cuore e stomaco con il Salento, veniamo portati a visitare la Grotta della Poesia. Si tratta di una piscina naturale formata dagli scogli che costituiscono uno dei luoghi più suggestivi della Puglia. Le rocce si affacciano a strapiombo su un’acqua cangiante – ora blu ora verde – e lo sguardo si perde all’orizzonte. Mi viene in mente un pezzo di American Beauty sulla bellezza e l’animo trema di fronte a questo spettacolo.

Subito dopo è la volta di Otranto, una bomboniera che si dipana tra vicoli bianchi come il latte e negozietti di souvenir. Io attraverso felice le strade infuocate, un cappello di paglia a ripararmi dal sole. Sono Liv Tyler in Io Ballo Da Sola fin quando non mi specchio in una vetrina. Ma si sa, la vita è un mozzico e non c’è tempo di pensare alle miserie del mio girovita, ché è già ora di pranzo. Voglio ricordare una cosa fondamentale: al Sud si mangia. E anche quando vi diranno che è un pasto veloce, piatti freddi, una cosa rimediata, stampatevelo bene in testa: si mangia.

Non solo, ma per la prima legge della termogastronomia, in vacanza non ci sono regole. Vi offriranno vino alle nove e un quarto di mattina, melanzane sott’olio alle tre e un quarto del pomeriggio e improvviseranno una spaghettata alle due di notte.

Poi non dite che non vi avevo avvertito.

Ci spostiamo a Corigliano D’Otranto, dove veniamo accolti da un complesso girovago di pizzica, che si esibisce per noi all’interno del castello. Un tempo, tale fortezza serviva a scopi militari, oggi ospita nelle sue torri delle camere attrezzate, dove poter vivere un’esperienza da veri re. 

Visto che è passata più di mezz’ora dall’ultimo pasto, approfittiamo della mostra di prodotti locali per ritrovare quella manciata di calorie perse.

Continuiamo alle cave di pietra leccese dell’azienda Marrocco, dove tra massi e polvere che si alza sotto i nostri piedi, ridacchiamo come bambini.

Ormai sporchi e sudati, veniamo portati alla struttura che ci avrebbe ospitato per la notte, la Masseria Appide’. Decisamente un luogo dove organizzare il proprio matrimonio, con i gazebo sul prato e l’arco di glicine sotto cui passare.

Finiamo la serata a bere e mangiare fino a tarda notte.

   
    
 

Puglia: lu sule lu mare e i pasticciotti

Ci sono giorni, non “quei” giorni, ma giorni comuni per entrambi i sessi, in cui si avverte il bisogno di un colpo di scena, un brivido caldo che dia una svolta alla routine quotidiana.
Ecco perché ho deciso di raccontare la settimana che mi aspetta quasi in diretta. Lo capisco, sono emozioni forti, ma insieme supereremo anche questa.
L’occasione, stavolta, si presenta sotto forma di un evento organizzato in Puglia, con la partecipazione di ospiti nazionali e internazionali, allo scopo di promuovere il territorio attraverso gli occhi “estranei” di bloggers e Instagramers. 
Ora qui faremo tutti finta di capire cosa sto dicendo, ché poi un giorno lo spiego con parole che possa capire anche io. Nel frattempo facciamo un atto di fede e prendiamo per buona la presenza, a questo mondo, di esseri mitologici che vengono invitati per raccontare qualcosa, che sia territorio, paio di scarpe o esperienza mistica.

Il Salento Up ‘n’ Down è un viaggio su e giù per la Puglia, appunto, con l’obiettivo di far scoprire luoghi noti e meno noti.
Nel momento in cui scrivo, non ho ancora incontrato i miei compagni di avventura, ma conosco i loro nomi e già c’ho la sudarella da prestazione. Mi ricordo un episodio avvenuto qualche mese dopo aver iniziato l’università; io e i miei ex compagni di liceo decidiamo di andare a trovare i vecchi professori. Già qui potremmo apparecchiare tavole rotonde sul perché ci si presta a questa barbarie. Ma chi le vole vede’ ste quattro cariatidi, io fuoco al liceo volevo dare. 

Fatto sta che incontriamo, tra gli altri, la professoressa di latino e greco, che davanti alla sua classe, rivolgendosi a me, chiese:

– Iannone, e tu che fai? –

– Scienze della Comunicazione –

– Vedete? Se c’è arrivata Iannone all’università, ce la potete fare anche voi –

Sempre in gamba eh Professore’. Magari al Verano, ma sempre in gamba. (Il Verano è uno dei cimiteri di Roma. N.d.A. per chi chiama da fuori Raccordo).
Cosa mi è rimasto di quell’epoca: niente, ho studiato e poi dimenticato tutto, che poi io ‘sto greco non l’ho più usato, quindi fate fare un corso di unghie finte ai vostri figli, altro che classico. In più porto gli strascichi della sindrome di Cenerentola, cioè sentirmi una sguattera alla festa di corte.
Un attimo che riprendo il filo del discorso. Quando sono stata invitata per questo evento, la prima reazione è stata di stupore: mi merito di partire? Sono in grado di stare tra gente forte, stimolante, con lavori fighi? La seconda reazione uguale. Un generale senso di inadeguatezza, alimentato anche da voci maligne sul mio conto. Sì, parlo con voi, progenie crudele della professoressa di latino e greco, nipoti brutti un colpo della dinastia di Sofocle. Io parto perché io valgo. Ma soprattutto sono bionda e bevo come un fabbro, sono disponibile per matrimoni, comunioni, feste di laurea e circoncisioni.
PRE PARTENZA – Il giorno prima di partire, ho trovato il tempo di fare una toccata e fuga in quel di Milano con la scusa di un invito all’atelier Nespresso, uno spazio industriale recuperato e pensato come un luogo di dialogo e di confronto creativo sul tema del caffè.

Qui avremmo incontrato tre chef stellati, che ci avrebbero deliziati con un brunch a base dei loro pezzi cult, strizzando anche l’occhio al protagonista del luogo: il caffè.

Non sono se sono stata spiegata, chef stellati, atelier, spazio Marras. La Milano da bere nel suo pieno splendore.

Io e la mia amica arriviamo tipo sbarco in Normandia, sudate alla faccia del “c’avete solo la nebbia” e anche un po’ trafelate. Io sono un incrocio tra Gianfranco Funari e i Blues Brothers mentre stringo la mano all’amministratore delegato di Nespresso Italia. Sono in total black H&M e scarpe maculate fosforescenti Vans, l’atelier è gremito di donne bidimensionali e uomini in giacca e cravatta. Per un momento penso di afferrare un vassoio e mettermi a servire ai tavoli, invece veniamo fatte accomodare dalla Gestapo delle hostess al nostro posto.

Assistiamo a un workshop sulla lavorazione del caffè, assaggiamo due caffè diversi, veniamo accompagnati attraverso un’esperienza multi sensoriale alla scoperta delle rispettive differenze. Ci chiedono di guardare la schiuma, di scansarla con il cucchiaino, di riconoscere il profumo agrumato del bergamotto e quello intenso del cioccolato. Io sono sveglia dalle cinque di mattina e voglio solo iniettarmi quel caffè direttamente in vena.

Prima del brunch ci viene offerto un aperitivo nello spazio esterno a base di champagne Ruinart e cialde di mais con guacamole e parmigiano. O almeno credo, ho ficcato in bocca l’intera cialda.

Nel frattempo diamo un’occhiata all’atelier di Marras, dove l’eleganza è quasi sfacciata e io quasi spudorata a presentarmi vestita come l’assistente di Meryl Streep in Il Diavolo Veste Prada.

E fu il brunch. Credo si sia ormai capito che per me il cibo è amore. Io non mangio, io mi innamoro ogni volta. È un trasporto fisico per quello che ho davanti, sia cibo di strada o alta cucina.

Bisogna dire che un piatto stellato rappresenta un’esperienza extra corporea. Al primo assaggio non capisci niente, ti esplodono in bocca sapori che non riesci a collegare. Al secondo cominci a distinguere qualcosa di conosciuto, ma anche qualcosa di inusuale. Poi vuoi morire lì, se c’è un dio mi deve far schiattare ora, mentre il tartufo e la crema di caffè ancora sono sulle mie papille gustative e una tizia grossa come il mio indice mi versa da bere il nettare degli dei.

Tutto è talmente perfetto che rifiuto  il mio nome e rinnego mio padre.

Voto alla giornata: 110 e lode, bacio accademico e una calorosa pacca sulle spalle.

   
    
 
GIORNO UNO – In una settimana ho preso due aerei e un treno, cinque kg, i miei capelli sono un’installazione di lacca e il mio migliore amico è il correttore. Ma sono ufficialmente in Salento. Arrivo all’aeroporto e mi rendo immediatamente conto che sarà un’esperienza enorme: ci sono i cameraman.

Ora, io non mi ritengo una brutta ragazza, ho visto gente messa peggio e comunque nessun fidanzato si è mai lamentato. Il problema è che l’obiettivo non mi ama. Foto, video, diapositive, cartoline, qualsiasi superficie con impressa la mia immagine andrebbe bruciata. Come scoprirò di lì a poco, invece, le mie compagne di viaggio hanno la fotogenia di Nicole Kidman. Sarà una lunga settimana.
Arriviamo a Lecce, dove saremo ospiti dell’Hotel President. L’orario è quello del pranzo e ne approfittiamo per conoscere meglio le persone con cui condivideremo questa esperienza. Considerate che siamo una ventina di persone, metà italiani metà da altre parti del mondo (compreso il Giappone). L’atmosfera è da gita delle medie, la lingua più parlata, l’alcol.
Dopo pranzo abbiamo il tempo per una meritata siesta ed è già ora di uscire nuovamente, ma stavolta per un aperitivo sulla terrazza del Risorgimento Resort. Come posso spiegare cosa si prova a bere un bicchiere di vino mentre il tramonto infiamma i tetti di Lecce? Mi invidio da sola.
   
   
 

La prima volta fa sempre male, la terza volta ti fa pensare

Esiste una fase della conoscenza tra due persone, che fa presagire potrebbe trattarsi di una promettente e stabile relazione. È il momento che va dal primo appuntamento ai successivi due o tre. Sono gli incontri dopo a determinare se il primo è andato davvero bene o se quel “sentiamoci” a fine serata era la scorciatoia verso un futuro da single.
Se voi prendete questa regolona generale e l’applicate un po’ a tutto ciò che riguarda la sfera emotiva, otterrete il mio ritorno a Palermo. 
La prima volta ero rimasta affascinata dal suo aspetto complesso: umile, cafona, opulenta, misera, elegante, decadente.

La seconda volta ci sono tornata per verificare le emozioni provate durante la visita precedente. Se era amore oppure un calesse. O un “lapino”, come dicono lì.
Stavolta l’occasione si è presentata sotto forma di compleanno del mio ragazzo, che avendo compiuto quarant’anni, da oggi chiameremo il mio signore.

La naturalezza, con cui abbiamo deciso di festeggiarlo in questa città che ormai sentiamo un po’ nostra, con delle persone diventate amiche, mi convince sempre di più che Palermo sia la città giusta per me.

GIORNO UNO – Per non perdere neanche un minuto del weekend, la partenza è con comodo alle otto del mattino. Arriviamo a Palermo con un tempo che minaccia pioggia e in orario da colazione.

Un po’ perché la città è gastronomicamente generosa, un po’ perché quello che succede in vacanza rimane in vacanza, decidiamo che le dieci e mezza sono un buon orario per birra e sfincione al Mercato San Lorenzo. Il mercato, come suggerisce il nome, è un’esposizione di cibo all’interno di uno spazio riqualificato,  dove design e materiali di recupero hanno contribuito a creare uno di quei posti radical chic che vanno di moda ultimamente. 

Qui non solo si possono comprare prodotti locali, ma anche assaggiarli sul momento. E siccome tutto mi si può dire, tranne che non ho rispetto per le culture locali, mi sento in dovere di mangiare questo lenzuolo di pizza con ricotta, cipolla e acciughe.
Apro una parentesi: se andate a Palermo, o in generale in Sicilia, sappiate che sono un popolo generoso anche nelle porzioni. Tu chiedi un’arancina e ti arriva un Supertele che da un momento all’altro esploderà ragù. Ordini un piatto di pasta e arriva la cofana di spaghetti di Bruno Sacchi (per chi non era giovane in quegli anni o non romano, cercatelo ché io non lo trovo).

Di conseguenza, non dimenticate le gomme da masticare, di quelle potenti, alla candeggina possibilmente. 
Dopo un primo corroborante contatto con la città, andiamo nel B&B che ci avrebbe ospitato per il fine settimana, Stanze al Genio. L’aspetto più curioso è che la struttura si trova nell’appartamento sopra al museo delle maioliche, che raccoglie 2300 mattonelle napoletane e siciliane. Anche il B&B, quindi, è stato arredato nello stesso modo, conservando i pavimenti originali e i soffitti affrescati. Vi assicuro che fare la doccia sotto un soffitto dipinto è davvero suggestivo.
Tempo di lasciare le valigie in camera e siamo pronti per il pranzo. Come ho già detto, a Palermo si mangia costantemente e la selezione naturale vuole che le signorine mangiainsalata vengano trovate in overdose da Imodium. Qui ci sono tra le donne più belle che abbia mai visto, con il fegato di un muratore e la capacità alcolica di un marinaio. Astenersi perditempo.
Ci fermiamo a mangiare in una delle trattorie del centro, la Trattoria Basile, dove ordiniamo il panino con la milza, uno spugnoso e sugoso panino che sa di eternità. 
Tappa successiva, Terrasini, una località balneare con i negozietti di materiale per la pesca e poi, ancora, Cala Rossa. So che si può dire di molte città, ma nella mia ingenuità, quando penso a una provincia del Sud, penso al mare, alla sabbia, al porto. Poi vieni a Palermo e se ti sposti appena dal centro, trovi posti dove la natura ricorda quella imponente della Norvegia dei fiordi. È così Cala Rossa, dove rocce a strapiombo si tuffano nelle onde e se ti siedi su uno sperone, con i piedi penzoloni e il vento che soffia, vedi il mare ribollire sotto di te.
Torniamo di nuovo in centro, poi a cena in un locale dove eravamo stati la volta precedente e ancora in giro a bere qualche altra birra. Ricordate, qui la birra costa meno dell’acqua, praticamente Praga, con lo stesso dialetto incomprensibile.

Consiglio: se nella vostra adolescenza avete sognato di dare fuoco a una chiesa e il 1977 è un anno per voi caro, due sono i locali da non perdere. Il Krust e il Rocket Bar.

Cocktail dell’estate: il fresconegro, a base di amaro e Schweppes. Sembra chinotto ma non è, serve a darti l’allegria.

    

    
   

GIORNO DUE – La sapete quella di notte beoni di giorno… Vabbè la sapete, eppure coraggiosamente mi sveglio per fare colazione e trovarmi, vicino ai cornetti, le arancine. Che grande popolo è questo.
Un popolo che ha un menù di pesce a prezzo fisso e tra gli antipasti offre i ricci di mare, appena aperti, da far scivolare sul pane col sesamo. 
Mangiare pesce è l’obiettivo del giorno, anche se con la scusa visitiamo Sferracavallo e Barcarello. Poi all’improvviso siamo seduti al Sea Fruits e da lì non ci muoviamo per le due ore successive.
Finiamo la serata in un locale dove ormai siamo di casa, arrivano gli amici, due tra i più cari ( Your Noisy Neighbors) suonano anche per noi, alziamo i calici ripetutamente. In questa notte di baci e abbracci sinceri, salutiamo la città ancora una volta.

Palermo, se tu me lo chiedessi, io ti sposerei.
  
   
    
 

When il figliol prodigo meets il vitello grasso

Dal Vangelo secondo Luca, il ritorno del figliol prodigo viene accolto con l’uccisione del vitello grasso.
Quando vado a Cetona, nella casa che i miei genitori comprarono anni fa, sono il figliol prodigo e il vitello grasso insieme.
Una cosa che ho imparato con il tempo, è che un figlio non smette di essere figlio solo perché ha una casa propria, un frigo con delle Sottilette al suo interno e un commercialista tutto suo. 
Un figlio rimane piezz ‘e core e pure un po’ piezz ‘e merd per le preoccupazioni, reali o inventate, che continuerà a dare ai suoi genitori. 
Una di queste è il cibo. Per un genitore, il figlio non avrà mai mangiato a sufficienza, anche se si è appena alzato da tavola. Per un genitore, il figlio avrà sempre l’aspetto di Chuck Noland di ritorno dall’isola in Cast Away. Magari sotto la corazza di panna cotta di Adinolfi, ma in fondo deperito.
GIORNO UNO – Arriviamo a Cetona in tarda mattinata e – ça va sans dire – le patate già sfrigolano nel forno con quel profumo rassicurante di olio e famiglia. Mia madre ci accoglie con il suo sorriso da lady della Val D’Orcia e le seguenti parole d’amore: “papà chiede se lo raggiungiamo per un aperitivo”.
Per chi avesse perso le puntate precedenti, in cui introducevo questo borgo, Cetona è un comune di neanche tremila anime, dove la vita sociale si svolge principalmente nella piazza del paese. Qui ci si dà appuntamento per raccontarsi gli ultimi pettegolezzi, decidere le sorti della contea, bere. 
Prendiamo un calice di vino bianco ghiacciato al Caffè Sport, giusto per preparare lo stomaco al pranzo. Lo stomaco, infatti, va educato ad affrontare qualsiasi situazione; potrebbe essere un panino con il lampredotto alle nove di mattina o un’impepata di cozze alle undici di sera. Se il vostro corpo è il vostro tempio, lo stomaco sono le mura. È inutile che lo alimentiate a fiori di Bach e petali di riso, ché al primo bacillo nell’aere prendete la gonorrea. Fate come me, una botta al cerchio e una alla botte, petto di pollo un giorno, peperonata un altro. Forse avvertirete un lieve bruciore e vomiterete sangue, ma un tempio va difeso anche a costo di qualche sacrificio.
Con questa supercazzola, ci apprestiamo a onorare la cucina materna. Una madre che si possa definire tale, anche quando è evidente che sta aspettando gli Achei tutti, dirà sempre: “Ragazzi, una cosa al volo eh”.
Mangiamo la lasagna ( “un pezzetto per uno eh”), le scaloppine ( “un assaggio eh”), le patate croccanti ( “è difficile trovarle buone, sono sempre troppo dolci”), la verdura ripassata ( “un po’ di verdura, poi ho pensato basta così”). E beviamo, beviamo, più che un pranzo in famiglia sembra la reunion degli Oasis.
Dopo una breve siesta post prandiale, che non ci dà neanche il tempo di digerire, veniamo portati a una cantina per assaggiare i loro vini. Le mura del mio tempio cominciano a vacillare, ma io resisto. Solo i duri, solo i forti. Continuiamo per Camporsevoli, un borgo medioevale dove le uniche forme di vita siamo noi e gli alberi che circondano questa Silent Hill toscana. Facciamo un giro in macchina per i tornanti che portano alla montagna, il verde brillante dei campi, più scuro nelle zone d’ombra, si sussegue ai colori dell’estate ormai imminente. 
Un’ultima occhiata tra i cespugli per stanare i caprioli (l’ho già detto che mio padre contiene Piero e Alberto Angela in un unico uomo?) e a malincuore ci accingiamo a concludere la giornata.
Non prima di aver fatto un aperitivo preparatorio a una cena a base di hamburger di chianina.

   
    
   
GIORNO DUE – Mi sveglio e questo già mi sembra sufficiente. Andiamo a fare colazione in un bizzarro locale chiamato Michele & Co., sogno proibito di ogni utilizzatore compulsivo di Instagram. Servono dalla colazione alla cena, dai macarons al filetto, in un ambiente volutamente disordinato. Ci sono tavoli di legno, tavoli di marmo, sedie impagliate, poltrone vecchio stile, lampadari, alberi che crescono dentro la sala.
Proseguiamo per Panicale, un altro borgo ma stavolta in Umbria, dove un panorama mozzafiato sul lago Trasimeno introduce a questo Comune fatto di vicoli e piccoli giardini nascosti.
Prima di tornare a casa, passiamo al casale di alcuni amici dei miei genitori. La vista del parco che circonda l’edificio, la casetta degli attrezzi, questa atmosfera un po’ decadente di fasti passati, mi convince sempre di più che io sono nata per essere pazza e ricca, non solo pazza.
Io sono destinata a uscire in giardino indossando una camicia da notte in lino egiziano 40 carati, per giocare a golf nella maniera sfacciata dei bohémienne viziati. Cioè tirando le palline contro i vetri delle stamberghe della plebe.
Pare che ci sia in vendita, a 23 milioni di euro, un’intera contea con un’abbazia privata. Mi mancano 23 milioni meno un centinaio di euro e potrò portare a compimento il mio destino.
Non muovetevi eh.

   
   

Non c’ero e se c’ero mangiavo

C’è gente che scrive per lavoro, chi per uno Sturm und Drang interiore. Io perché forse riesco a stare lontano dal cibo per almeno un paio di ore.

Fisicamente intendo, perché quello che sto per raccontare non è stato propriamente il weekend di 7 kg in 7 giorni.

Galeotto fu il festival di cultura digitale Medioera, una manifestazione sull’innovazione e sulla tecnologia, a cui partecipano ospiti italiani e internazionali, che si svolge a Viterbo. Tra gli ospiti “nostrani”, insieme a personaggi del calibro di Lidia Ravera, io. Che se non sono salita sul palco è per timidezza.

GIORNO UNO – Arriviamo a Viterbo venerdì sera, in tempo per alcuni degli interventi più divertenti della giornata.

Sto parlando di Federico Palmaroli, l’inventore di una pagina Facebook, che in breve è diventata un fenomeno mediatico. Forse solo nonna non conosce Le più belle frasi di Osho, ma nonna sono dieci anni che è morta, quindi la perdoniamo. L’occasione per conoscere questo autore romano è data dall’uscita del suo primo libro: Ma fa ‘n po’ come cazzo te pare. 

Ora, non perché sono romana, ma il nostro dialetto è veramente comico e ancora più comico è quando viene usato senza la reale intenzione di far ridere. Mentre Federico legge stralci del suo libro, io perdo cinque calorie solo ridendo. La sua aria seria, mentre pronuncia frasi come “Quel riso non lo butta’ che domani ce famo i supplì” e sullo sfondo le  immagini del mistico indiano, non mi fa respirare.

E poi, tutto ciò che è dissacrante, a me piace come il cucchiaio infilato nel barattolo della Nutella.

A tale proposito, cito necessariamente anche il secondo intervento, quello di uno degli autori di Lercio, un sito satirico di notizie inventate, costruite in modo da creare dubbi sulla loro veridicità. Ma anche qui, non sto dicendo niente di nuovo. E se lo sto facendo, andate e informatevi.

GIORNO DUE – Risveglio al Balletti Park Hotel, doccia, colazione ed è già tempo di mettersi in macchina per raggiungere la prima destinazione di questo weekend: il Centro Botanico Moutan. Si tratta della più vasta collezione al mondo di peonie cinesi. No i giardinetti sotto casa, peonie! Tante. Ma prima facciamo un giro per Vitorchiano, un gioiello di borgo che si arrampica su un blocco di peperino.

Naturalmente questo peperino mai sentito, anzi, mi fa anche un po’ ridere, ma per darmi un tono ho annuito quando ne parlavano e poi l’ho cercato su Google. È una roccia magmatica, mica spiccioli.

Finita la nostra prima visita, continuiamo per il Casale della Mentuccia, un’ex casa colonica che oggi ospita eventi diversi. Noi veniamo ricevuti dalla famiglia al gran completo per il pranzo. I proprietari, infatti, sono una coppia, con i loro figli e i figli dei figli. Ora immaginate un casale immerso nel verde, dove alberi secolari vi daranno riparo dal sole. Immaginate una grande e calorosa famiglia che ha preparato una tavola imbandita con prodotti locali. Ecco. Ora immaginate me implorare di essere adottata. Sarà stato anche il vino, ma soprattutto la bellezza del posto.

Ma anche il vino, infatti la passeggiata successiva la ricordo a malapena. Credo di essermi trascinata per Viterbo finché qualche anima pia non ha pensato bene di rientrare.

La serata si conclude con altri interventi per il festival Medioera e una cena al Decò Bistrot, un locale molto suggestivo all’interno delle mura medioevali.


  
  

GIORNO TRE – È il turno di Tarquinia, un altro paese in provincia di Viterbo dove ammirare la necropoli etrusca e altre testimonianze di quel periodo.

Il mio consiglio per il pranzo: Bacco Perbacco, piccolo locale dove il servizio è cortese e si mangia bene.

Anche questa giornata sta volgendo al termine, c’è il tempo di visitare la Riserva Naturale Statale Salina di Tarquinia ed è ora di salutarci.

Come ogni volta che un weekend si rivela anche emotivamente impegnativo, io rimango con una sensazione agrodolce nel cuore. Come quando ordini i gamberetti dal cinese, solo che quelli ti rimangono sullo stomaco. Però sono buoni e io non smetterò mai di ordinarli.

Ringrazio, quindi, i miei compagni di viaggio. Quelli vecchi, che non deludono mai. Quelli nuovi, nella veste di due donne venute dal freddo Friuli, donne di una vivacità intellettuale e una prontezza di spirito come poche volte ho visto.

Ora basta, però, che ho il ciclo e non ho paura a usarlo.